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28/07/2020

Una curva venuta
male, 80 metri di
cuore

Mosca 1980, Olimpiadi: Pietro Mennea vince l'oro sui 200 metri. Uno che considerava il fallimento come un’esperienza. Uno che da quella curva di Mosca ha tratto la forza per una straordinaria impresa sportiva e per chiudere un quadriennio di enormi soddisfazioni.

Dicono che le curve servano a svoltare, a cambiare il destino della propria vita. Nei 200 metri, la curva è importante. Fondamentale: i primi 120 metri della gara sono tutti in curva. Solo 80 metri in rettilineo. Vale il 60% dell’impresa. Serve tecnica. Serve essere perfetti. Perché a tirarti indietro c’è anche la forza centrifuga. E poi la curva in sé: è necessario affrontarla con la giusta distribuzione del peso, dell’equilibrio e dello sforzo.

Tronco in leggera torsione destra, spalla sinistra avanti, braccia parallele, torsione del capo verso l'interno. Infine, ricomporsi a circa 10 metri dal rettilineo, assecondando la spinta centrifuga.
E poi, non si parte mica uno accanto all’altro. C’è chi parte più avanti, chi parte più indietro. E prima del riallineamento, agli 80 metri finali, non sei ancora del tutto consapevole della prestazione. Lo scopri lì, sul rettilineo, a qualche metro dalla gloria.

Chissà se ha pensato a tutto questo Pietro Mennea da Barletta, a Mosca 1980, gara per l’oro nei 200 metri. La curva, quella curva, lo ha punito: all’inizio del rettilineo, ne ha tre davanti. Lui è in ottava corsia, quella che sembra più lunga, ma anche quella più vicina al pubblico. Senti gli applausi, gli incitamenti. E se stai rimontando, trovi altre energie.

Allan Wells, britannico, in settima accanto a Mennea, fresco vincitore dei 100 metri, Don Quarrie, giamaicano, campione olimpico in carica, Silvio Leonard, cubano, il più giovane, l’unico che alla fine del rettilineo rimarrà senza medaglia, hanno affrontato meglio la curva.
Certo, nei 200 metri, la curva è importante. Ma non è tutto. Lì, nel bel mezzo di una corsia da 122 centimetri, c’è ancora tanto cuore da mettere. Perché se sei in una finale olimpica, la tecnica è ok, ma calcolare raggio e inclinazione è difficile. Serve il sangue, serve il cuore. E poi c’è la rabbia. 

La curva, quella curva, lo ha punito: all’inizio del rettilineo, ne ha tre davanti. Lui è in ottava corsia, quella che sembra più lunga, ma anche quella più vicina al pubblico. Senti gli applausi, gli incitamenti. E se stai rimontando, trovi altre energie.

Mennea è appena uscito azzoppato dalla competizione per i 100 metri. Fuori dalla finale e criticato dalla stampa. “È finito”, dicevano. Ingeneroso per uno che meno di un anno prima a Città del Messico aveva fatto registrare il primato mondiale. Certo, i giornalisti dell’epoca ancora non sapevano che sarebbe diventato il record più longevo di sempre nell’atletica: 17 anni, fino all’era moderna Johnson - Bolt.

Wells, Leonard, Quarrie. Agli 80 metri sono davanti. E recuperarli, quelli lì, non è mica facile. Due metri sono tanti. Wells ha corso una prima parte mostruosa. “È lì che ho pensato, bisogna reagire, non abbattersi. Seppure fosse l’ultima possibilità per portare qualcosa a casa” rivelò Mennea anni dopo. Ma è proprio lì, in quell’ultima possibilità, che il cuore inizia a pulsare di più, la rabbia ti spinge più avanti. Mennea è abituato ad allenarsi a Formia con Vittori, il Professore, che lo seguiva a bordo di una vespa. E spesso si staccava. Figurarsi trenta metri.


"Ogni stagione agonistica, ogni momento della vita di un atleta è come intraprendere un viaggio. Obiettivi, scelte, strade. Fallimenti e occasioni di crescita. Allenamenti, una vita di sacrifici tutto l’anno per 20 anni. Se potessi tornare indietro rifarei tutto, anzi farei ancora più sacrifici in questo viaggio per raccogliere ancora di più”

Al traguardo: Mennea, Wells, Quarrie. 20”19 il primo, 20”21 il secondo. Trenta centimetri avanti, arriva Mennea. Che alza l’indice al cielo, nel suo modo così caratteristico di festeggiare. Un atleta con un fisico così diverso dagli atleti di oggi, un atleta con una testa così diversa dagli atleti di oggi, un uomo ispirato dalla vittoria olimpica di Tommie Smith. Il velocista oro nel 1968, il velocista che sul podio andò a piedi scalzi, il guanto nero e il braccio destro alzato. Stessa pista, Città del Messico, del suo record olimpico.

Al traguardo, ad intervistare Pietro Mennea, dopo l’oro olimpico di Mosca, c’è Gustavo Delgado, anche lui pugliese. “Pietro, Pietro, siamo felici con te. Hai visto che festa ti hanno fatto? Una risposta a chi ti criticava”. E lui rispose: “Si certo, ma qui nessuno della stampa ha capito ancora chi è il vero Mennea”.

Pietro Mennea era così. Uno che è passato alla storia per essere “colui che si è allenato di più al mondo”. Uno che considerava il fallimento come un’esperienza. Uno che da quella curva di Mosca 1980 ha tratto la forza per una straordinaria impresa sportiva e per chiudere un quadriennio di enormi soddisfazioni.

“Ogni stagione agonistica, ogni momento della vita di un atleta è come intraprendere un viaggio. Obiettivi, scelte, strade. Fallimenti e occasioni di crescita. Allenamenti, una vita di sacrifici tutto l’anno per 20 anni. Se potessi tornare indietro rifarei tutto, anzi farei ancora più sacrifici in questo viaggio per raccogliere ancora di più”. Disse.

Per uno con questa filosofia, per Pietro Mennea da Barletta, una curva fatta male è solo un passaggio da migliorare, non può scoraggiare. Una curva è solo una curva, un tratto di un viaggio meraviglioso. Niente tecnica, solo forza di volontà, solo cuore. 

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